giovedì 13 settembre 2007

A LECCE IL PIZZO CI MANGIA


Parlare del sistema PIZZO è monotono, è un bla bla di parole sceme. L’ho sempre immaginato come un meccanismo altamente complesso, fatto da componenti diversi, conflitti dissimili, difficili da raggruppare e stabilirne le giuste sequenze.
Il pizzo l’ho sempre descritto come un piccolo acquario poggiato in alto sul frigo, dentro un appartamento vecchio ed umido. Un mondo a parte dentro la casa, un ambiente dove la luce, suoni, colori che entrano vengono distorti, ammutoliti. Vive, progredisce solo, nel silenzio, in quella dinamica mimica del pesce, che contorce una realtà quasi scenica, in ombra, non veduta, silenziosa, che va avanti, un organismi che si moltiplica, crea contorni, paesaggi. Un microcosmo che si fa attraversare.
Se dovessi immaginare il Pizzo, lo immaginerei con un solo flash back, su Diego, ammazzato, con dei fori nello stomaco, nella testa, la macchina buttata sul muro, i fari accesi, steso sul sedile. Lo immaginerei con il cerchio della solita folla curiosa che corre e si adagia indiscreta a catturare qualche spicchio di veduta, vedere il corpo inerme, quasi maniacale a ricostruire gli attimi, l’identikit perfetto della scena dell’agguato. Poi quando la folla si sbriciola, inizia il passaparola, il chiacchiericcio continuo di informazioni nel paese, i moventi, i pettegolezzi, il biasimo, la cattiva reputazione, la storia, il racconto di chi fosse, cosa facesse.
Diego era giovane, alto, gonfio, tronfio, voleva comandare, avere rispetto, voleva soldi, ricchezza, donne, come un normale giovane che ha speranze, aspettative. Era uno di quelli che non voleva essere costretto a cambiare città per essere ricco. Desiderava esserlo nel suo. Dove era cresciuto, con gli amici che aveva, nella casa dove abitava.

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